Molto più che una semplice bevanda, il caffè, come il vino, non rappresenta solo un momento di convivialità ma racconta la storia di un territorio, di un frutto e delle persone che lo hanno lavorato.
IL RITO DEL CAFFÈ
Eduardo camminava per i quartieri di Napoli con il naso all’insù. Il sabato all’imbrunire raccoglieva con le narici il profumo dell’ingrediente principe del pranzo di famiglia del giorno seguente, messo a “pippiare” sul fuoco: il ragù. La domenica, di prima mattina, si incantava di fronte ai balconi fumanti dove anche Pasquale Lojacono lavorava all’”abbrustolaturo”, l’attrezzo utilizzato per tostare il caffè alla brace di legna. L’aroma dei chicchi raggiunti dal calore spandeva per i vicoli stretti e bui e salutava l’inizio del dì di festa.
Nei bassifondi di medesimi vicoli del Pireo, nel bar di Vassilis, il rito del caffè che bolle nel bricco di rame stagnato e lento deposita la propria polvere sul fondo della tazza, mi annuncia ogni anno l’esordio della vacanza, in un giorno della settimana che sarà, fino al ritorno ad Atene, un perpetuo venerdì.
Il sabato sera, al ritorno dalle cime, il mio amico Marco mette la caffettiera sulla stufa e l’amplesso odoroso della miscela che danza con il fumo dei ceppi roventi, precede l’istantaneo gorgogliare della schiuma sulla ghisa arroventata. Domani sarà ancora un giorno di festa.
Nel centro di Giuliano in Campania, il profumo intenso del caffè ristretto alla napoletana, che scendeva schiumoso dalla macchina a leva di Don Ciccio e incontrava nel vetro caldo del bicchiere la scorzetta di un limone d’Amalfi e mezzo cucchiaino di zucchero a velo, portava le narici in paradiso. Mi ci fermavo sempre prima di raggiungere l’aeroporto e con un caffè così era domenica tutti i giorni.
Il caffè mette in pausa qualsiasi giornata e traghetta quei pochi minuti in un’altra dimensione temporale. Perché il caffè non è solo un seme e neppure una bevanda. E’ un rito, quasi esoterico, che mette in comunicazione, tramite il caffè, chi lo beve, chi lo ha preparato, chi lo ha tostato e chi lo ha prodotto. Il problema è che, come per tutti i riti, per funzionare necessita di materia prima che ne incarni l’essenza, la complessità, la nobiltà mentre, diceva Gianni Frasi, perfino “nei grandi ristoranti si serve un caffè a livello del Tavernello”. Ma Frasi non si limitava a stigmatizzare il prodotto finale, metteva in guardia sull’attuale deterioramento di tutti i passaggi della catena. A livello di coltivazione, ad esempio, gli ibridi sono sempre più comuni e il sapore è sempre più omologato. Nel vino si fa la stessa cosa con i lieviti selezionati e i cloni. Ma nei paesi del terzo mondo il vino non c’è, e l’ingegneria agricola si è accanita su questo nobile seme. Per non parlare della diffusa incapacità di selezionarli i semi, di conservarli, di miscelarli, di tostarli correttamente e, soprattutto, una volta ridotti in polvere, di preparare la bevanda calda interpretando con competenza, classe, disciplina e arte, tutte le regolazioni e i passaggi variabili della macchina per espresso. E con la moka la storia è un po’ più semplice ma ugualmente non banale. Ma a nulla vale informarsi su tecnica e tecnologia se non si ha a disposizione una grande materia prima. E per Dispensa abbiamo scelto quella di Gianni Frasi, probabilmente il miglior torrefattore europeo, tra i migliori al mondo, recentemente scomparso. Musicista, artista a tutto tondo, esoterico, filosofo, considerava il caffè un segno della Gerusalemme celeste, un riflesso dell'era messianica. Perché il caffè era la sua fede.
IL CAFFÈ DI GIANNI FRASI
La storia delle miscele di Frasi nasce dentro un laboratorio di pochi metri quadrati, battezzato Giamaica, dove i macchinari risalgono agli Anni 50, e dove l’ho incontrato anni fa. Frasi lavorava più per sé che per la sua selezionatissima clientela di droghieri, baristi, pasticcieri e ristoratori. "Ho chiamato un affrescatore perché me lo dipinga bello in grande su quel muro: "Questa azienda non ha futuro". Per ordine di Leopoldo I d'Austria io non posso andare a propormi a nessuno, né avere commessi viaggiatori, né portar via i clienti agli altri, né parlar male dei colleghi, né strappargli i dipendenti promettendo aumenti di stipendio". Già, cito da un articolo del giornalista veronese Stefano Lorenzetto, lui è rimasto l'unico al mondo ad attenersi al dettato corporativo asburgico che impone "rispetto, onorabilità, disciplina, pietà e successione". Fu emesso dall'imperatore il 16 luglio 1700 "a scopo di protezione del mestiere", giacché in Vienna a quel tempo c'erano già ben quattro torrefattori cui era stato concesso il privilegio di tostare il caffè: un marrano, due austriaci e un croato.
E Frasi si era convinto davvero di non dover estendere oltre i suoi clienti. Come nessuno che non avesse una macchina Faema, che non avesse seguito la formazione per saperla utilizzare correttamente e soprattutto che non la sottoponesse a periodica manutenzione, era degno di prepararvi le sue miscele e quindi di poterle acquistare. Religione, appunto, direbbe qualcuno, o etica d’altri tempi, da artista, nel senso di praticante di un’arte nobile, artigiana, al servizio del cliente e del sapore.
Oggi il suo sapere è preso in consegna ed evoluzione da Simone Fumagalli, uno dei pochi in Italia a conoscere i segreti della Vittoria, la macchina degli anni ’50 che tosta fuoco diretto. “I chicchi arrivano qui crudi, di colore chiaro ma hanno già in sé una loro storia straordinaria fatta di acqua, di terra, di nuvole di umidità tropicale, di mani sapienti che li hanno coltivati, selezionati e in un certo qual modo già amati...”.
LE 4 “M” CAFFÈ
La storia del caffè si intreccia con quella del commercio. In Etiopia è riconosciuta la presenza della specie selvatica, varietà arabica, più delicata e con meno caffeina, presto coltivata in Indocina e poi in Sudamerica e nei Caraibi. Gli Arabi lo scoprirono, i Turchi lo portarono a Vienna, i Veneziani in Italia.
Abbiamo anche altre tipologie oltre la “Coffea Arabica”: la Coffea Robusta, la Coffea Liberica e la Coffea Excelsa. È una pianta perenne che può raggiungere anche i 10 metri di altezza ma nelle piantagioni non supera i 2 metri e mezzo con più ramificazioni e fogliame ovale verde scuro. I fiori stellati bianco crema sono profumatissimi ed il frutto rosso è una drupa molto simile ad una ciliegia contenente uno o due noccioli ciascuno dei quali avvolge un seme con una faccia dorsale convessa.
La raccolta viene effettuata quando il frutto del caffè, giunto alla giusta maturazione, assume appunto un colore rosso. Nella raccolta manuale si evita sempre di cogliere bacche di diversa maturazione, rischio in cui si incorre utilizzando i macchinari moderni.
Il caffè, come il pepe, viene lavato, per eliminare le impurità, anche se esistono anche miscele in cui questo trattamento viene evitato, per preservare al massimo la complessità aromatica. Quindi si procede all’asciugatura, stendendo i chicchi al sole e all'aria per una settimana, e spazzolato per rimuovere eventuali contaminanti. Dopo aver selezionato i chicchi in base a colore e dimensione, vengono tostati affinché raddoppino il volume originale cambiando in colore e densità. Quando la temperatura interna raggiunge i 200° il chicco inizia ad assumere il colore marrone scuro, cosiddetto a “tonaca di frate”, oltre i 240° invece brucia irrimediabilmente. La miscela può avvenire prima o dopo la tostatura, ma è quando il caffè si è raffreddato che è pronto per la macinatura, dopo la quale l’aroma incomincia lentamente a decadere.
Negli Anni ‘50 si consegnava il caffè ai bar tre volte la settimana per garantire al massimo grado questa freschezza. Oggi il sotto-vuoto permette di prendersi tempi più lunghi, e la conservazione in frigorifero, ben sigillato dopo la prima apertura, aiuta a protrarre la durata dell’aroma. Ma la macinatura al momento sarebbe preferibile. Non si tratta però di un’operazione banale e non tutti oggi hanno a casa un macinino. Per questo la Miscela della Torrefazione Giamaica che abbiamo selezionato per Dispensa è già pronta da mettere nella moka. A quel punto intervengono le altre variabili delle quattro “M”, oltre a Miscela e Macina, contano la Macchina e la Mano dell’operatore: ora tocca a Voi!