Il Miele: riscoperta di un nettare

Appunti dalla dispensa //

Il Miele: riscoperta di un nettare

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Il racconto di un viaggio alla riscoperta delle origini e delle potenzialità di un nettare inebriante che l'industria ci ha fatto dimenticare.

STORIA DI UN’IMITAZIONE

Stupidamente non sono mai stato un amante del miele. Negli anni Settanta snobbavo quello di castagno prodotto dai contadini nelle mie montagne, che trovavo privo di classe. Era scuro con una dall’odore acre, leggermente amaro, spesso separato in una parte cristallizzata e una più liquida, eventualità che in realtà in questa varietà di miele non dovrebbe accadere. Chissà cosa conteneva davvero. Disturbava il palato e sul burro gli preferivo qualche fiocco di sale. Probabilmente si trattava di un prodotto piuttosto naturale, in cui il lavoro delle api era abbastanza rispettato, ma in cui mancava l’abilità dell’uomo per accompagnare quel frutto a diventare un alimento eccellenze, quella che mette in campo e in cantina un vignaiolo Triple “A” per trasformare l’uva dei propri filari. Insomma, era semplicemente un po’ ingenuo, come il vino di mio nonno, che non conosceva additivi ma che buono non lo era davvero.

Poi mi sono tenuto alla larga per anni dai barattoli di millefiori che arrivavano a casa da ogni parte d’Italia, in quanto gli amici di famiglia pensavano di farci un omaggio prezioso, portandoci in dono un ricordo delle loro vacanze. Erano spesso troppo dolci, stucchevoli, privi di una reale complessità. Molti di questi probabilmente avevano aromi banali perché non prestavano alcuna attenzione a selezionare il periodo delle varie fioriture, che permette di ricavare varietà di miele di una singola specie o derivate dalla raccolta del polline di un bouquet ben definito. Alcuni, l’ho capito dopo, nutrivano le api in maniera artificiale, per aumentare la produzione, invece di lasciar procedere la trasformazione in maniera spontanea. Probabilmente gli ortaggi dei loro campi erano zeppi di diserbanti cosa che, avrebbe poi provocato di fatto la moria degli sciami di api. Erano gli anni Ottanta, si stava avvelenando la terra, rincorrendo il mito della produzione e la chimica nel campo pareva ancora inossidabile.

Al bar dell’Università, negli anni Novanta, faceva figo avere accanto alle bustine dello zucchero, un dosatore con una sostanza bionda, estremamente fluida, che chiamavano miele. La provenienza era incerta e il sapore nauseante. Ancora oggi in molti locali non è raro trovare queste porcherie. Se avrete la pazienza di leggerne l’etichetta, scoprirete che si tratta di “miscela di mieli provenienti da vari paesi europei e extraeuropei” o addirittura provenienti in toto da paesi extra-UE. Oggi i migliori mieli italiani sono sottoposti all'insostenibile concorrenza per le crescenti importazioni di miele a prezzi stracciati proveniente da paesi terzi, Cina in particolare. Dal 2013, le importazioni cinesi nella Ue sono state in media di 80.000 tonnellate. La Cina è il più grande paese di importazione del miele e rappresenta il 50% delle importazioni totali nell’Unione Europea. Nel 2019, i prezzi del miele cinese all’ingrosso erano pari a 1,24€/kg, quasi dieci volte in meno dei prezzi di un buon miele italiano. Ma in Cina i processi di maturazione e deumidificazione del miele, che avvengono naturalmente nell’alveare, dove un essudato o una secrezione vegetale sono trasformati dal lavoro di centinaia di animali per dar luogo a un prodotto complesso e ricco di presenze vitali, possono essere messi in atto in maniera artificiale e industriale. Questo metodo rende il processo di produzione più rapido e meno costoso e il prodotto risultante è un nettare deumidificato artificialmente e immaturo. Nulla di diverso da quanto accade con i processi enologici industriali messi in pratica da diverse cantine. Forse non a caso quegli stessi bar, ora come allora, espongono con orgoglio bottiglie di vino artificiale accanto a questi mieli di cattiva qualità e a caffè di scarso interesse organolettico.

QUINT’ESSENZA DI UN FIORE

Dopo vent’anni in cui non ho più voluto sentir parlare di miele, sono approdato in un’allora totalmente sperduta isola della Grecia, uno scoglio in mezzo all’Egeo dove il vento e il sale spazzano un terreno completamente brullo, devastato da un incendio a metà dell’800, che ha incenerito gli ultimi boschi di querce e ginepri che resistevano a quel clima estremo. La vegetazione estiva è rappresentata solamente da arbusti spinosi, tra cui spicca il timo, che produce cuscini semisferici di piccolissimi fiori viola, che, da maggio a fine luglio, caricano l’aria di profumo inebriante. In quei mesi le api si scatenano nella raccolta e il miele di timo è un’istituzione in ogni famiglia, un cataplasma, un benvenuto affettuoso, un regalo pregiato, un ingrediente raffinato. Al primo cucchiaino ho suggellato la mia promessa di fedeltà a quella montagna arida in mezzo al mare e a quel nettare famoso fin dall’epoca di Omero, e il cui sapore non smette di inebriare gli uomini da tremila anni. Penso potrei riconoscerlo a occhi chiusi tra mille altri mieli e ogni volta mi farebbe tornare alla mente il blu di quel mare.

Qualche anno fa poi, in Marocco, Luca Gargano mi fece il regalo di farmi condurre da un amico in un rifugio di sua proprietà in un luogo completamente al di fuori delle rotte turistiche, nelle colline alle spalle di Essaouira. I dromedari tiravano ancora gli aratri, i muli trasportavano i raccolti e qualche ricco mercante passava a cavallo. Mi offrirono una selezione meravigliosa di cibi “beldi”, naturali, tradizionali, autentici. Mangiai il più buon galletto ruspante, “poulet bicyclette”, della mia vita, marinato nel miele e cucinato nella tajine, la pentola magrebina. Con il miele assaggiai le mandorle e la ricotta locale e iniziai a condire col miele perfino le uova sode, arricchendole di spezie locali e trangugiandole voracemente tra le risate degli amici marocchini. Quel miele suadente mi aprì una porta sul mondo della complessità di questo alimento. E iniziai a cercare di capirne di più.

Negli ultimi dieci anni ho incontrato diversi produttori eccellenti che, come prima regola, mi hanno mostrato come il rapporto con le api sia simbiotico. Le maneggiano senza protezioni, a mani nude, senza venir punti e nel reciproco rispetto. Ad esempio ho incontrato Mara sull’isola di Sant’Erasmo, nella Laguna di Venezia, che produce il miele di barena, ricavato dai fiori alofiti che riescono a sbocciare in queste aree che la marea sommerge periodicamente. Ho apprezzato il lavoro dei ragazzi di una piccola cooperativa di Montezemolo, un paesino dell’alto Cuneese, che portano le loro arnie a raccogliere il nettare dei fiori di valli incontaminate, lontano dall’inquinamento e dal turismo, e che sono alla ricerca di chi sappia capire il lavoro e la passione che stanno alla base di una produzione davvero artigianale, e a retribuirla adeguatamente. Ho incontrato molti altri agricoltori onesti e appassionati.

Poi, in una giornata piovosa di un paio d’anni fa, sono salito a Thun in Val di Non, e ho fatto la conoscenza di Andrea Paternoster e dei mieli Thun. Ed è iniziata una storia d’amore con il sapore. Ho capito che il miele è un prodotto naturale perché deriva dal nettare dei fiori. Quel piccolo prelievo racconta un territorio e le sue vegetazioni. Per produrre 1kg di miele le api visitano 6 milioni di fiori. Le api traducono la complessità delle specie floreali in una determinata area e la sintetizzano in un alimento che ha la medesima raffinata complessa intensità. I mieli di Thun sono per lo più monovarietali, frutto di un’apicoltura nomade, che accompagna le api in giro per l’Italia durante i picchi di fioritura. Ma è anche la mano dell’artista artigiano a creare il capolavoro. Ogni vasetto di miele ha un colore definito, pulito, omogeneo. La consistenza è setosa, più o meno densa, ma attraente per il palato. I profumi sono complessi, ampi, vari, riconoscibili e specifici per ogni varietà. E gli assaggi non sono mai stucchevoli, sono dolci ma ricchi, eccezionalmente persistenti.

Questo miele è il prodotto più ecologico che abbia mai incontrato, uno tra i pochi alimenti zuccherini di cui sia goloso, e rappresenta un ingrediente di eccezionale versatilità e ricchezza in cucina. Sono certo che nessuno, dopo averlo provato, potrà smentirmi e anzi ne diventerà dipendente. Probabilmente è per questo motivo che il capostipite dei mieli della Dispensa Triple “A” è proprio il miele Thun.