UNA STORIA PICCANTE
Non fu tenuto in gran considerazione fin dal suo arrivo dall’America del Sud, bollato dalla Chiesa come “generatore di pensieri impuri” e dall’aristocrazia come “dozzinale spezia dei poveri”. L’esistenza del peperoncino è attestata in tutte le civiltà precolombiane sia in Messico che in Perù: Olmechi, Toltechi, Aztechi, Inca e Maya. A Tehuacan in Messico, e a Giutarrero in Perù, sono stati rinvenuti dei reperti archeologici che ne testimoniano l’utilizzo la coltivazione già nel 5.000 avanti Cristo. Il peperoncino è protagonista in tutte le civiltà precolombiane. Pianta sacra, moneta si scambio, è stato utilizzato nei secoli, nel continente sudamericano, come medicina, come afrodisiaco, come strumento di magia e di tortura e, naturalmente, come esaltatore di sapidità, abbinato a un altro ingrediente, di per sé stesso magico, il cioccolato e ai fagioli, che con il proprio contenuto in zuccheri ne mitigano l’irruenza. È infatti lo zucchero e non il pane e tanto meno l’acqua l’antidoto naturale della capsicina, la cui presenza percentuale all’interno del peperoncino definisce il grado di piccantezza, che infatti viene misurata tramite la scala di Scoville prende il nome dal suo ideatore, Wilburn Scoville, che ideò un test organolettico, con un panel di assaggiatori, a cui sottoporre una soluzione di peperoncino diluito in acqua e zucchero finché il "bruciore" non fosse più rilevabile. Al livello più basso, a zero, si posiziona il peperone dolce, a quello superiore, il Pepper X, che deve essere diluito più di 3.000.000 di volte per non risultare più piccante.
Cristoforo Colombo incontrò il peperoncino piccante durante il suo primo viaggio, ad Haiti, e ne raccontò nei suoi diari le proprietà curative che gli abitanti di quella terra gli attribuivano. Chissà se si trattasse di Pimant Bouck che Luca Gargano mi ha regalato, marinato in succo d’arancia amara, che è una dei pochissimi cibi che conservo nel mio congelatore, e che ha un profumo complesso e ineguagliabile.
Nel secondo viaggio nelle Americhe Colombo iniziò l’importazione del peperoncino, su spinta dei Reali di Spagna, sicuri di essere di fronte a un affare colossale. In realtà il commercio si arrestò sul nascere, perché ricchi e nobili non lo apprezzarono, perché la coltivazione risultò più facile del previsto, riproducibile in vaso a partire da un semplice semino, rendendo inutile il trasporto transatlantico, e perché appunto la Chiesa lo considerò un prodotto sconveniente e demoniaco. Ancora oggi in alcune isole della Grecia, dove sopravvivono insieme superstizione e tradizione nel rito greco-ortodosso, il cibo piccante non viene visto di buon occhio, come possibile strumento di demoniaca disinibizione. Fu così che venne relegato alle cucine dei poveri.
Nessuna traccia nel celebre libro di Fisiologia del gusto di Brillat-Savarin del 1825 e nessuna citazione nella Scienza in cucina, il trattato con cui Pellegrino Artusi nel 1891 inventava la cucina nazionale italiana. In quegli anni il peperoncino è diffuso solo presso i ceti popolari meno abbienti, i contadini del sud che lo utilizzano per insaporire i loro piatti poveri, guadagnandosi così l’appellativo di “spezia dei poveri”. Divenne l’omologatore del cibo del popolo, come il parmigiano lo era di quello della nobiltà. In maniera non difforme dal braccio di ferro, dalle prove di coraggio e dal trasporto di pesantissime macchine del Santo, si svilupparono quindi anche prove di machismo, che ne prevedevano l’ingestione di enormi quantità, fino a cancellarne il sapore a favore di una prolungata infiammazione delle papille. Anche per questa ragione la coltivazione ha smarrito l’attenzione alla complessità aromatica, percepibile soprattutto all’inizio della maturazione, differente tra il prodotto verde e quello cotto dal sole e solo parzialmente smarrita nel prodotto essiccato. E ci si è orientati maggiormente su una generica “piccantezza” che tanto più elevata era tanto più il peperoncino veniva considerato di qualità. Se ci pensate i contadini di un tempo erano ugualmente disinteressati all’aroma del vino. Più un vino era alto di grado più era valutato ed apprezzato, in barba al sapore. Il peperoncino dava sapore a cibi che non ne avevano, conservava la carne quando i frigoriferi non c’erano e con le sue proprietà disinfettanti era di aiuto alle popolazioni dei paesi caldi. Si diffuse quindi velocemente tra le popolazioni con regimi alimentari monotoni e carenti di vitamine. I messicani vi condivano le tortillas, alcuni africani la manioca, e nel Sud Italia si mise a dare nerbo alla cucina povera del quotidiano, a base soprattutto di vegetali.
IL DEBUTTO DEL PEPERONCINO IN TUTTE LE CUCINE
Perché il peperoncino venisse notato anche dall’alta società, bisogna però aspettare gli inizi del Novecento. Compare infatti nel primo pranzo futurista del 1931 in cui Filippo Tommaso Marinetti propose un antipasto a base di peperoncini verdi che nascondevano bigliettini di propaganda futurista. Quindi iniziò a diffondersi ovunque e oggi è l’ingrediente più utilizzato al mondo, dopo il sale.
Ancora nel nostro secolo qualcuno si concentra sul grado di piccantezza, nel tentativo di vincere un’ancestrale prova di coraggio nell’ingerire un prodotto altamente infiammante, ma inizia ad affermarsi un’attenzione per l’aromaticità che può essere molto diversa tra varietà differenti, e che dipende molto sia dalle modalità di coltivazione, intensive o artigianali e al livello di maturazione.
Personalmente adoro la freschezza dei peperoncini verdi, anche leggermente indietro di maturazione. Conferiscono magia a qualsiasi piatto. E, sempre quando sia disponibile il prodotto fresco, lo privo dei semi e, se riesco, con un coltello affilato, anche della pelle, per utilizzarne solamente il filetto. Ma il peperoncino è prodotto stagionale, e ogni cultura si è sempre attrezzata per conservarlo.
Per utilizzare il peperoncino fuori stagione, la maniera migliore di è quella di congelarlo fresco e affettarlo poi con le forbici dal freezer al piatto. Comunque l’ortaggio correttamente essiccato, all’aria e lontano dal sole, acquista un’interessante concentrazione. Va conservato un anno al massimo, privato dei semi e ridotto al momento in polvere finissima, per piatti crudi o cotti, dove non deve mai friggere o bruciare. La pelle, indigesta come quella del peperone, andrebbe eliminata sia dal fresco che dal secco, creando una poltiglia da passare al setaccio, conservabile in un buon olio extravergine per poco tempo se il peperone è fresco, per un tempo molto lungo se il peperone è secco.
I peperoncini vengono solitamente conservati sott’olio e molti utilizzano quest’olio per condire. Non sono un grande fan di questa pratica. Come non utilizzerei mai l’olio dei carciofini per condire un’insalata. L’olio è lì come antiossidante e conservante, si ossida esso stesso per proteggere il cibo che conserva. Molto meglio invece, come per i funghi conservati in casa, sbollentare i peperoncini conservati in acqua tiepida, per eliminare l’olio di conserva, e ridare al prodotto un profilo organolettico molto simile a quello del peperone fresco. Altro discorso invece se l’olio viene prodotto lasciando in infusione i peperoncini per un periodo limitato, nel quale cedono all’olio, a freddo, tutte le sostanze aromatiche.
Se il peperoncino è di qualità, prodotto con lentezza e rispetto del suolo, lavorato a mano e senza fretta, come quelli di Lu Cavalire, utilizzato con parsimonia, donerà a qualsiasi piatto un tocco esotico che lo trasformerà in un piatto da re, altro che spezia dei poveri!