Iniziamo all’incontrario. Ho iniziato a mangiare i capperi dopo aver assaggiato quelli di Serragghia. Con mangiare intendo a manciate, come aperitivo, come caramelle, sul gelato, insieme a un cioccolatino. Perché non basta partire da una materia prima eccellente. I capperi hanno bisogno dell’incontro con la sapienza dell’uomo per cedere al palato il proprio inconfondibile sapore senza risultare amari, allappanti, salati o insapori. I miei ricordi dei capperi iniziano nel Monferrato, al paese di mio nonno, dove la terra calcarea infarcita di piccole conchiglie, che i contadini chiamano impropriamente tufo, testimonianza di un mare ancestrale, d’estate per il caldo torrido si spaccava in piccole crepe polverose. Le case e le cantine più modeste erano costruite con blocchi di questo materiale e i mattoni erano riservati alle cascine dei signori o alle chiese. Proprio sui muri di sostegno delle parrocchiali, arroccate in cima alla collina più alta del concentrico, crescevano e crescono rigogliosi i capperi, portati da chissà quale cavaliere medievale o uccello migratore. Purtroppo in provincia di Asti c’era il mare ma non il sale, mentre non mancava l’aceto, per cui si iniziò la conservazione previa bollitura in aceto, come si era usi operare con i funghi chiodini, che crescevano tra le radici di salici e robinie. Il risultato fu di capperi totalmente privi di un sapore proprio, esattamente come avviene per i boleti all’aceto: cadaveri in formalina. Non a caso poi la Saclà si sviluppò in provincia di Asti lavorando sulla falsariga del medesimo gusto locale i propri barattoli di capperi e sottaceti che hanno dettato il gusto medio italiano nello scorso secolo, finché l’industria provò a copiare ciò che si faceva nelle isole col procedimento tradizionale, utilizzando il sale come conservante. E, come nel contrabbando della bianca polvere insaporitrice, un tempo più preziosa dell’oro, iniziarono a spacciare i cristalli al posto dei boccioli, mettendo in commercio capperi giganti, cotti dal sale e miscelati in proporzioni così maleducate che non bastavano giorni di ammollo a dilavarli dall’eccessiva sapidità. Ancora una volta non mi entusiasmarono.
Venne poi il tempo di Slow Food e della nascita del cibo gourmet. Quello che un tempo era contadino e povero divenne un presidio raro, ricercato, e anche piuttosto caro. Assaggiai i capperi delle Eolie, di Salina, di alcune isole greche, del Nord Africa, della Turchia. Quelli della Trinacria, merito dell’aristocrazia del Regno delle Due Sicilie, che indirizzò i contadini dei propri latifondi alla ricerca della raffinatezza nel sapore, salvo poi trattarli in maniera molto meno umana di quanto una certa propaganda vorrebbe far credere, erano i più interessanti. Alcuni erano ancora eccessivamente salati, in altri il calibro non era selezionato in maniera uniforme, in altri ancora la salamoia era condotta senza grazia. Ma il sapore iniziò ad intrigarmi.
Il cappero è un piccolo arbusto spinoso che ama il sole e il secco ed è ubiquitario nel Mediterraneo da tempo immemore. La sua storia è antichissima e documentata nella Bibbia, ma anche in scritti di Ippocrate, Aristotele e Plinio il Vecchio. I luoghi in cui cresce più rigoglioso sono le isole della Sicilia, spazzate dal vento e arrostite dal sole, dove l’umidità notturna, raccolta da pietre e muretti a secco, viene assorbita lentamente dalle lunghe radici, che si accontentano di poche gocce d’acqua per nutrire una pianta florida e verdissima. Nelle isole siciliane i capperi sono parte integrante del paesaggio e il fiore, probabilmente il più sensuale ed elegante del mondo, e anche il più caduco, ingentilisce di bellezza qualsiasi angolo di terra deserta e profuma d’Africa, di mare e di foresta, la stanza dove venga adagiato in bacinelle d’acqua ghiacciata.
La coltivazione del cappero ha origini antiche: sarebbe nata tra il Nord Africa e il Medio Oriente. Anticamente la messa a dimora dei semi era affidata al becco degli uccelli o, per mano dell’uomo, a una cerbottana che li spingeva con forza tra le fenditure di un muro. Quelli che chiamiamo capperi sono i boccioli della pianta, prima che vadano a fiore. Ne esistono diverse qualità e più sono piccoli per genetica, più sono pregiati, perché la salatura sarà più uniforme. Sta inoltre all’abile mano dell’uomo a raccoglierli quando sono minuscoli e selezionarli per caratura uniforme. Anche i frutti possono essere raccolti, posti in salamoia, e quindi sottolio. sono i “cucunci” della tradizione siciliana, un tempo cucinati con la pasta e oggi accostati ai salumi dell’aperitivo, sulla falsariga dei cetrioli lattofermentati dell’uso tirolese.
La raccolta dei capperi si effettua nel periodo che parte da fine maggio e può proseguire oltre agosto, ogni 8-10 giorni. Ci si sveglia prestissimo, perché bisogna evitare il sole più caldo. Dopo essere stati raccolti, i capperi vengono stesi al fresco, per impedir loro di sbocciare. Dopo qualche ora, si separano i capperi più piccoli e pregiati dai bottoni più grandi, sul punto di sbocciare. Il passaggio successivo è la salatura: avviene solitamente in fusti o botti tagliate a metà. Nei giorni che seguono ci si prende cura dei capperi, travasandoli da un contenitore all’altro. Questo trasferimento serve a evitare che l’azione di sale e calore rovini i capperi, innescando fermentazioni indesiderate.
I capperi Serragghia, raccolti a Pantelleria, soddisfano il rigido protocollo Triple “A”: provengono dalla raccolta manuale di boccioli di piante selvatiche o coltivate nel rispetto della biodiversità. Vengono ottenuti con una salamoia a bassa concentrazione di sali marini non trattati poco aggressivi; vengono ottenuti senza ingredienti aggiunti, sbiancanti, coloranti, conservanti; dichiarano in etichetta la data di raccolta, le modalità di lavorazione, la scadenza e la rintracciabilità dell’intera filiera produttiva. E vengono sgocciolati e lasciati maturare almeno 1 mese prima di essere immessi in commercio. Questo riposo è uno dei loro punti di forza. Permette una maturazione lenta e una diffusione della salamoia senza eccessive concentrazioni. Si presentano infatti confezionati praticamente senza sale, perché la miscela di marinatura è penetrata delicatamente al loro interno. E la varietà di sale è il punto distintivo di tutto il processo. Si tratta di uno dei migliori del mondo, il sale di Guérande, sale grigio chiamato anche sale celtico o bretone, estratto nella regione Pays de la Loire, nella parte nord-occidentale della Francia, una baia atlantica, che con i suoi circa 2000 ettari di terreno ricchi di saline abbraccia una decina di comuni. Il colore grigio perla dipende dal fatto che questo sale non viene trattato con sbiancanti e non subisce alcun tipo di raffinazione, per questo conserva il suo caratteristico colore e la grande quantità di minerali. Viene ancora raccolto con l'uso di attrezzi di legno e non di metallo, per non contaminarne la purezza, e allineato e setacciato senza subire nessun trattamento o lavaggio.
Grazie a questo processo e a questo sale i capperi di Serragghia non sono un ingrediente ma un alimento totalmente unico, pronto da essere consumato. Siamo alla caccia di altri capperi, in giro per l’Italia, come dicevamo non solo quella del Sud, che soddisfino i medesimi requisiti di lavorazione e di sapore. E siamo certi che presto li troveremo.
Non è un delitto comunque utilizzare una manciata di questi capperi in cucina. Le signore dell’isola vi preparano i piatti tipici della cucina pantesca, come paste condite con olio, tonno e capperi, insalate, salse, pesci ripieni, crostini. Personalmente li trovo imbattibili in padella insieme a un buon burro non salato, per condire uno spaghetto oppure aggiunti a una zuppiera di cipolle novelle bollite, lasciate riposare in loro compagnia al fresco, per una notte, e poi irrorate con un cucchiaio di olio delicato e qualche goccia d’aceto di miele.
Non smetterò comunque mai di gustarli da soli, come un bon-bon o accompagnati a una tavoletta di cioccolato puro. Provateli così e ditemi se riuscirete a non diventarne dipendenti.
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