Cosa bolle in pentola?

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Cosa bolle in pentola?

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Come il vino del contadino è arrivato nelle carte dei vini dei migliori ristoranti del mondo e nei ristoranti stellati? Federico Francesco Ferrero ci racconta come è cambiato il mondo della ristorazione.

L’ALTA RISTORAZIONE E IL RITORNO ALLE ORIGINI

Chiunque viaggi davvero sa che la scena gastronomica mondiale diventa ogni giorno più uguale a sé stessa. Soprattutto nella cucina di lusso, quella di cui parleremo oggi. I piatti tradizionali resistono a scopo aneddotico in alcuni locali per turisti ma molto più spesso la tradizione viene contaminata con la moda contemporanea e, ancora più frequentemente, le proposte dei locali più moderni sono ormai uniformate e risultano identiche in ogni paese. È la globalizzazione, bellezza! La verità è che nello scenario gastronomico non solo le differenze etniche risultano sempre più sfumate o pittoresche ma latitano soprattutto le novità, quelle che, come per l’abbigliamento, la tecnologia e l’arte, sono sempre state ideate nei contesti di maggior disponibilità di denaro o di conoscenza, per poi diffondersi nei locali di ogni fascia economica. Quali sono state dunque, negli ultimi quarant’anni, le innovazioni messe a punto dagli artefici dell’alta cucina?

Tra le poche figure che hanno rivoluzionato recentemente la ristorazione planetaria possiamo annoverare Ferran Adrià, cuoco spagnolo che ha saputo unire la modalità di servizio dei bar dei Paesi Baschi, basata sull’offerta di piccoli assaggi (tapas) con cui accompagnare le bevande, agli ingredienti più prestigiosi prodotti in tutta la penisola iberica, rendendola più attraente tramite l’utilizzo di tecniche di trasformazione estreme, desunte dall’industria alimentare, chimica e dei materiali. Il successo del suo locale di Girona, El Bulli, in un contesto di rinnovato interesse per la fotografia, favorita innanzitutto dalla miniaturizzazione degli apparecchi e dall’inserimento dell’obiettivo direttamente nei telefoni personali e, in seguito, dalla diffusione della socialità basata sull’immagine, ha indotto gran parte dell’alta ristorazione prima e dei locali di fascia media poi, a spostare l’attenzione dal sapore alla forma.
La rincorsa verso piatti sempre più fotogenici ha in realtà tradito in parte la lezione dello chef, che aveva condotto gran parte della propria ricerca sulle consistenze e sulla sensazione palatale. Ripercorrendo l’esperienza di questo locale simbolo, l’offerta di minuscoli assaggi è diventata centrale in ogni tipologia di ristorante, portando ad una sempre più diffusa proposta di un cosiddetto “menu-degustazione”, costruito tramite una pletorica successione di piattini che prevedono estrosi abbinamenti, proteine animali e vegetali, carne e pesce, interiora e uova, sapientemente posizionate in maniera da risultare stupefacenti alla vista prima ancora che al palato.

A essere sinceri la trovata non è completamente originale. Gli ultimi imperatori cinesi pretendevano che ogni giorno fossero serviti a corte centinaia di piattini costituiti da un solo boccone, con la consegna di dover risultare stupefacenti per apparenza, consistenza e temperatura. E anche alla fine del Settecento, prima della rivoluzione operata dal più grande cuoco della storia contemporanea, Marie Antoine Careme, al servizio di Napoleone Bonaparte e del Ministro Talleyrand, la decorazione monumentale delle tavole imbandite, a base di vere e proprie opere architettoniche edibili, servite e consumate tutte contemporaneamente, poneva già l’accento più sulla vista che sull’olfatto.

Dopo Adrià una seconda innovazione recente la dobbiamo a Renè Redzepi, del Noma di Copenhagen, cuoco danese di ascendenza albanese, che ebbi la fortuna di conoscere all’inizio della carriera, quando decise di seguire in maniera estrema il concetto del “chilometro zero”, propugnato con grande efficacia da Slow Food. Cucinando solamente ciò che era in grado di reperire in un ristretto raggio di ricerca, divenne fonte di ispirazione per una moltitudine di ristoratori, che ne applicarono i medesimi principi, anche in maniera magari meno estrema e facendo un ricorso più modesto a tecniche di cottura e di architettura del piatto. Anche qui l’idea ripropone un assunto gastronomico ineluttabile nel passato prossimo dell’umanità: a differenza degli aristocratici, che si distinguevano, anche a tavola, gustando prelibatezze provenienti da zone remote della nazione o del pianeta, le comunità rurali, prima della rivoluzione industriale, si sono sempre cibate strettamente di ciò che potevano reperire nelle campagne limitrofe o, addirittura, di ciò che erano in grado di autoprodurre. Per questo sia il sale che lo zucchero si diffusero davvero nelle case solamente nell’Ottocento, insieme allo sviluppo dei trasporti su larga scala. Non ricordo se Redzepi avesse mai preso in considerazione la possibilità di eliminare anche il sale dalla propria cucina a raggio ristretto, ma la forza della sua proposta sta proprio nel proporre una cucina di lusso basata sulla restrizione un tempo dettata dalla povertà.

L’ultima innovazione degna di nota la dobbiamo a Victor Arguinzoniz, che nel suo Asador Etxebarri, a una quarantina di chilometri da Bilbao, ha iniziato a cucinare qualsiasi portata solamente sulla brace, affinando la tecnica, la presentazione e il servizio fino a conseguire l’ambito riconoscimento della Guida Michelin e influenzando una moltitudine di locali nel mondo. Anche in questo caso l’invenzione è relativa. Basta ricordare che ancora a metà dell’Ottocento la cucina avveniva, anche nei ristoranti più blasonati, esclusivamente su fornelli alimentati a brace e che la prima forma di cottura, fin prima dell’età del Ferro e ancora oggi ampiamente diffusa nelle zone rurali dei paesi meno sviluppati, era legata al fuoco e alla brace di legna in cui le pietanze venivano gettate direttamente prima, e protette con stoviglie di terracotta poi.

IL VINO DEL CONTADINO NELLE MIGLIORI CARTE DEI VINI

La novità più sorprendente che ha investito il pianeta intero negli ultimi dieci anni è stata però la diffusione deflagrante dei vini allora definiti “naturali”, che hanno radicalmente modificato lo scenario gastronomico mondiale con una velocità e una potenza senza precedenti. In Italia Luca Gargano e i suoi collaboratori, con il progetto Triple A, avevano iniziato già dieci anni prima a costruire un catalogo di produttori che vinificassero in maniera molto artigianale, con il minor numero di interventi possibile, sia in vigna che in cantina, per metterlo a disposizione di diversi professionisti della ristorazione distribuiti lungo tutto lo Stivale. Ma la bomba scoppiò a metà degli anni ‘10 del secolo, quando in tutta Europa la comunità di bevitori appassionati dei nuovi, vecchi, vini tradizionali, raggiunse la massa critica, grazie anche all’esplosione dei telefoni personali e dei mezzi di socialità virtuale. Una marea incontrollabile iniziò a invadere le abitudini di consumo di bar e ristoranti. A differenza di quanto successo fino ad allora, la rivoluzione non partì dai locali di fascia più elevata ma da luoghi di livello intermedio o addirittura da piccoli bar carbonari, da trattorie tradizionali attente a una proposta di prodotti contadini oppure da punti di ristoro neonati, animati da giovani appassionati di vino, in preda a una crisi di identità enologica. In breve tempo, e in maniera esponenziale, soprattutto negli ultimi quattro anni, l’onda del bere “naturale” si è diffusa dall’Europa in tutto il mondo e ha raccolto una schiera di appassionati prima e di semplici consumatori dopo, che hanno iniziato a riferirsi a passaparola e a specifiche applicazioni digitali per decidere i locali dove consumare i propri pasti, con la clausola che vi si servisse preferenzialmente questa specifica tipologia di vino.

Al tempo dei primi locali di “vini naturali”, in cui le bevande risultavano molto più importanti degli alimenti e in cui i menu venivano in secondo piano rispetto alla carta dei vini, spesso il cibo di accompagnamento non risultava completamente coerente con l’artigianalità contadina delle bottiglie. Quando la crescita iniziò però a stabilizzare la propria ripida ascesa, nei locali che servivano vini contadini, anche la ricerca di prodotti gastronomici artigianali divenne preponderante. Inoltre, incominciarono a scomparire i vini più ingenui, in cui prevalevano i difetti, vini puliti per lo stomaco ma non per il palato. Grazie al lavoro svolto in Italia da Velier, e alla determinazione di altre aziende di distribuzione, di selezionatori, di ristoratori, di sommelier e di numerosi clienti, il livello dei prodotti proposti sul mercato crebbe in maniera decisiva e l’alta ristorazione iniziò ad interessarsene, nel nostro paese come all’estero. Oggi la consapevolezza nel mercato è aumentata e il termine iniziale vini “naturali”, aggettivo ormai in parte già fatto proprio dall’industria, ha iniziato a essere sostituito con quello di vini “contadini”,quelli prodotti dagli agricoltori, dagli artigiani e dagli artisti, che vinificano rispettando la terra e le stagioni, senza far ricorso agli agrofarmaci, e che non utilizzano in cantina alcun processo di addizione o sottrazione.

Prima timidamente, poi rincorrendo a doppia velocità i locali di fascia inferiore, l’alta cucina ha iniziato a dotarsi di carte di vini contadini, sempre più ambiziose e complete, al punto che oggi molti locali di fascia altissima, in tutto il monto, hanno fatto la scelta di accompagnare i loro piatti esclusivamente con vini di piccoli artigiani. Il mondo agricolo ha contaminato il mondo del lusso. E la cucina, anche al massimo livello, ha iniziato a mettere in atto una maniacale ricerca e selezione di materie prime, autentiche e artigianali, e a creare piatti in grado di esaltare e valorizzare la materia e i prodotti del territorio, piatti in cui la tecnica cede lo scettro all’ingrediente. A essere sinceri il percorso non è ancora compiuto, ma presto la cucina a favore di telecamera lascerà il posto, proprio nella fascia più alta, a una ristorazione in grado di recuperare la propria funzione di “servizio”: cucinare al momento, in maniera personalizzata per il cliente, materie prime estremamente fresche, artigianali, provenienti dal territorio. Questa strada, che le guide gastronomiche, influenzate dalla rigidità aziendalistica dei troppi sponsor industriali, non riescono ancora a cogliere e valorizzare, è già tracciata in maniera chiara nei locali delle destinazioni mondiali di maggiore tendenza, ancora una volta quelli di fascia intermedia, dove, in ogni pasto della giornata, è possibile comporre il proprio piatto con una serie di aggiunte o omissioni, tutte provenienti da una lista di ingredienti freschi e artigianali, da accompagnare con un bicchiere di una bevanda altrettanto artigianale, vino o altra bevanda fermentata, infuso o succo di frutta che sia.

IL FUTURO DELLA RISTORAZIONE

Il “buono, pulito e giusto” propugnato dal carismatico Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, è compiuto, salvo per l’ultimo aggettivo. Complice anche la speculazione costruita ad arte sulla pandemia e sulla guerra ai confini dell’Europa, che ha fatto lievitare il costo di materiali, utenze e servizi, i prodotti contadini, scarsi e sempre più ricercati da una clientela planetaria, che ne ha compreso la differenza in termini di salute e di sapore, spuntano prezzi sempre più elevati, così come crescono i conti dei locali dove questi vengono serviti, col rischio di trasformarsi davvero in prodotti di lusso, fruibili dalle fasce più abbienti della società, quotidianamente, e dagli appassionati, solo eccezionalmente. Esiste però una risposta di resistenza a questo fenomeno, grazie alla diffusione di gruppi d’acquisto inintermediati per le materie prime fresche e la proposta sempre più ricca di vini quotidiani e alla ricerca di prodotti dai prezzi accessibili operata da parte di tutte le distribuzioni.

Anche per quanto riguarda questo fenomeno, possiamo trovare un precedente in un modello del passato, fortemente italiano. Quando si diffuse il commercio che, sei secoli fa, in una nazione geografica divisa in molteplici stati, piuttosto isolati da confini e dogane, era particolarmente florido, lungo i crocevia nacquero le prime osterie, che poi si installarono in ogni centro abitato. Questi locali erano caratterizzati soprattutto per l’offerta del vino, normalmente presente solo nelle dimore aristocratiche o nelle cantine dei contadini produttori. E i bicchieri venivano accompagnati da una serie di proposte, fresche di giornata, spesso sempre uguali a se stesse, che seguivano un’invenzione dell’oste o una ricetta di famiglia. Solo più tardi, dopo la Rivoluzione Francese, si svilupparono veri e propri ristoranti, dove ci si recava per il cibo e non per il vino.

Ai giorni nostri va dato merito all’alta ristorazione, in questo momento incredibilmente omologata e piuttosto a corto di idee, di aver colto l’opportunità, tramite l’attenzione verso vini e i prodotti contadini, di seguire una tendenza ineluttabile che mette al centro la tutela della salute, della sostenibilità, della competenza artigiane e del sapore. Ma cosa ci riserverà il futuro? Una parte dell’alta ristorazione riproporrà alcuni cavalli di battaglia in catene di locali dal design curato e dall’offerta standardizzata, “fast chic”, un’altra aliquota si dedicherà, come sopra ipotizzato, ad una cucina sempre più di lusso, personalizzata e basata su prodotti contadini, del territorio o primizie altrettanto artigianali trasportate fresche da lontano e cucinate al momento. E un’ultima nicchia, se sarà in grado di sostenersi economicamente, tornerà a intraprendere la strada della sperimentazione nel sapore, oggi riservata davvero a pochissimi cuochi tra cui, in Italia, possiamo indicare Niko Romito, che porta avanti un lavoro tassonomico e scientifico.

E i vini? Indubitabilmente si diffonderà ulteriormente l’offerta di vini artigianali e contadini. Grazie al lavoro di intermediari e professionisti aumenterà la differenziazione dei prezzi basata sulla qualità, che sarà in crescita costante. E diventeranno apprezzate e ricercate le annate, come sempre successo nei secoli per i vini di lusso, quando venivano consumati da chi deteneva sia il denaro che la conoscenza per apprezzarli. In particolare, nei vini artigianali, non protetti dai conservanti e non ottusi dalla tecnologia, gli anni di affinamento in bottiglia permetteranno di esaltare in maniera compiuta l’espressione dell’annata e del territorio, con sorprese che oggi si possono solo intravvedere ma che nelle blasonate parcelle artigianali di Borgogna, la cui profondità di cantina risale a parecchi decenni, gli appassionati sono da qualche secolo abituati a riscontrare.

In questo scenario gastronomico in rapido mutamento, ma che attira sempre più gli interessi di un’umanità in cui cresce, oltre al numero di abitanti, anche quello di famiglie dotate di importanti mezzi economici, disposte a investire su prodotti alimentari di agricoltori e di artigiani, a fare la differenza nella fascia apicale, in grado di influenzare tutta la filiera, saranno, sia in cucina che in cantina, i veri artisti in grado di garantire, accanto alla salute e alla sostenibilità, l’eccezionale sorpresa nel sapore.