L'abbinamento non è una scienza esatta ma una forma d'arte soggettiva che può essere appresa, allo scopo di amplificare il piacere della tavola per se stessi, in privato, o per i propri clienti, al ristorante.
L'interazione tra gusto, consistenza e aroma, interpolata con le preferenze soggettive e i limiti di spesa, viene guidata, in genere, da tre linee guida.
1. Congruenza o contrasto: viene preso in considerazione un ingrediente chiave del piatto e viene abbinato un vino con aromi che condividono toni simili a questo ingrediente. Ad esempio, un piatto di risotto alla fonduta viene accostato a un calice con una bocca grassa, “burrosa”. Un abbinamento altrettanto piacevole potrebbe derivare dal contrasto: un vino dall’acidità elevata, che “pulisce” la bocca dall’eccessiva untuosità;
2. Equilibrio: come all’interno di una ricetta i sapori devono essere in equilibrio, come nel calice viene premiato il vino capace di far integrare corpo, acidità, dolcezza e tannini, così cibo e vino abbinati non devono sovrastarsi l’un l'altro. Un vino con un’acidità fuori controllo accostato a un fegato grasso ne nasconderà la delicatezza;
3. Narrazione e località: i vini che rappresentano la migliore espressione di un territorio sono creati lentamente, con molto amore. Abbinarli a materie prodotte in serie, con la velocità propria dell’industria, mina il piacere del racconto ma anche quello dell’assaggio. Invece non sempre i vini regionali sono la miglior scelta per i piatti tradizionali della medesima zona, ma l’occasione di narrare un territorio ha comunque una sua coerenza e permette la scoperta dei sapori di un’area.
Prima di redigere queste righe, ho consultato decine di pubblicazioni, che riportano un elenco infinito di pietanze e di preparazioni con accanto il miglior vitigno in grado di esaltarle. E sono rimasto piuttosto perplesso. Intanto sappiamo benissimo che anche i migliori sommelier del mondo non sono in grado di riconoscere con sicurezza un vitigno all’assaggio e quindi quando il New York Times, con sicurezza dogmatica, consiglia di servire con il salmone alla piastra un pinot noir rinfrescato in ghiaccio, mi piacerebbe sapere di quale area di produzione stiamo parlando, di quale produttore, di quale tecnica di vinificazione, di quale evoluzione in bottiglia. E anche di quale salmone, visto che il sapore può essere completamente differente, non solo da area ad area di cattura e da specie a specie, ma anche da esemplare ad esemplare. Esattamente come nel vino.
Non solo due pinot noir di due produttori differenti posti a duecento metri di distanza possono essere totalmente difformi riguardo al profilo aromatico, ma anche una bottiglia di una medesima etichetta può essere diversa dall’altra, in funzione dell’anno di vendemmia, degli anni di riposo in bottiglia e dell’evoluzione subita da quella specifica bottiglia, naturalmente se il vino non è stato imbrigliato tramite processi enologici artificiali e tramortito da una massiccia dose di conservanti. Quindi il mito del vitigno credo sia molto sopravvalutato. Quando al bar o al ristorante mi chiedono su quale vitigno mi voglio orientare o mi propongono un calice elencando i vitigni disponibili, resto sempre stupito. E pongo la solita domanda: “ha una bottiglia che oggi sia particolarmente in forma?”. Il ruolo di chi serve un vino o propone un abbinamento dovrebbe proprio essere quello di sapere cosa potrebbe soddisfare un singolo cliente, in quello specifico giorno, con quello specifico cibo.
Nel mondo del vino contadino che, per mille ragioni, ha abbandonato volontariamente le denominazioni di origine, ci diamo abituati a etichette che non riportano più i vitigni ma semplici nomi di fantasia. Anzi, vergognosamente, se non si è inseriti in una DOC, è stato emanato il divieto di indicarli pure sulla retro-etichetta e sul proprio sito internet. Bene, in questi assaggi “alla cieca”, perché non dichiarati in etichetta, molto spesso la discussione sul vitigno viene intavolata quando la bottiglia è già terminata, e spesso viene dipanata solamente da qualche informazione reperita clandestinamente sul web. Credo quindi che la tipologia di vitigno sia solo relativamente interessante quando si tratta di decidere un abbinamento. Naturalmente sto parlando di vini veri, dove non siano state standardizzate in cantina le caratteristiche organolettiche che un vino dovrebbe esprimere per rendere, appunto, riconoscibile, o piuttosto aderente al canone che si è deciso di assegnargli, un determinato vitigno.
Un altro dogma riguarda il colore del vino. Bianco col pesce, rosso con la carne. Vi risparmio la tiritera sul fatto che il sapore intrinseco di una pietanza non si possa banalizzare definendola di mare o di terra ma dipende da quale pesce e da quale carne e cucinati in quale maniera, ma vi ricordo invece che la maggioranza degli individui non è in grado, bendata, di riconoscere con certezza se stia assaggiando un vino bianco o un vino rosso. E se si parla di bianchi vinificati con la buccia, i cosiddetti “orange” o macerati, che si possono considerare rossi travestiti da bianchi, questo è ancora più difficile.
Alla richiesta di preferenze tra vino bianco, rosso o bollicine, con cui accompagnare un piatto, rispondo sempre perplesso.
Il più importante degli abbinamenti è infatti non riguarda il colore o la frizzantezza ma lo stato dei sensi che devono accogliere il liquido. Bisognerebbe quindi domandare se si desidera un vino leggero, impegnativo, divertente, profondo, spiritoso, austero, accogliente o provocante.
Vale anche la pena ricordare come non sia il cibo ad esaltare il vino ma il contrario. Qualsiasi degustatore non si sognerebbe mai di giudicare un formaggio, un olio o, appunto, un vino, accompagnandolo con diversi manicaretti, perché il vino, scivoloso, liquido, il cui tempo di contatto con il palato è minimo, la permanenza retro-olfattiva nella faringe piuttosto labile, e la percezione odorosa diretta limitata al fugace transito sotto alle narici mentre si porta il bicchiere alla bocca, non può competere con la permanenza aromatica di un bolo di cibo che ammanta il palato finché la bevanda alcolica non viene a nettarlo.
I vini, come i profumi, si degustano in maniera più intensa a digiuno, alle prime ore del mattino, meglio se al buio. Come per il formaggio, gli assaggi si possono intercalare con un pezzetto di pane neutro, come i britannici biscottini d’avena, possibilmente senza sale. Ma, visto che l’alcool, se assorbito velocemente dallo stomaco, ha degli effetti neurologici non indifferenti, è abitudine comune accompagnarlo col cibo. In realtà questa pratica non è così universalmente riconosciuta. In molti Stati, infatti, soprattutto nei paesi più freddi, al bar non si serve alcun cibo insieme al calice e gli avventori, se sono interessati al sapore, imparano presto a gustare il vino lentamente. Così, nel lontano passato, quando il vino era carburante per i lavori agricoli e per le marce militari, non veniva associato ad alimenti, ma consumato da solo e tosto trasformato in energia. In quell’impiego però il sapore non era l’interesse principale… Fin dai tempi biblici, invece, nel banchetto si associa il vino al cibo. Ma l’aristocrazia, pensiamo a quella dell’attuale Regno Unito, che del vino pregiato ha scritto la storia, riservava un posto speciale alle bottiglie più pregiate nel dopo cena. Spesso in un’altra stanza, dove queste venivano stappate per essere accompagnate dalla conversazione o da piccoli bocconi di formaggio o di dolce. Esattamente come nelle evangeliche nozze di Cana, il vino migliore arrivava al termine del banchetto.
L’utilizzo di una bevanda nobile come il vino per “pulire” la bocca tra un boccone e l’altro o, in una tradizione più volgare, per aiutare un grosso boccone a scivolare in gola, non si associa ad alcun elevato piacere gastronomico. Nella cultura gastronomica cinese di alto rango, ad esempio, le pietanze non sono accompagnate né al pane o qualche altro elemento neutro e nutriente, che aiuti a raccoglierle e a raggiungere prima la sazietà, ma neppure ad alcuna bevanda di alcun tipo. I liquidi vengono gustati lontano dai pasti, perché il sapore del cibo deve essere prolungato il più a lungo possibile. Quando quindi lo scopo del pasto non sia il convivio ma la degustazione di cibi o di preparazioni di livello particolarmente elevato, preferisco anch’io non accompagnarle con alcun vino, per non alterarne il sapore. Allo stesso tempo preferisco degustare una grande bottiglia mentre non sto masticando.
In generale credo che sarebbero interessanti ristoranti di alta cucina dove si serva una buona bottiglia di aperitivo, poi si gustino due piatti soltanto, ma di grande interesse, cucinati per intero al momento, e ci si sposti, a stomaco pieno, in un’altra stanza dove degustare una o più bottiglie con l’attenzione che meritano.
Non è una mia invenzione. Tutti i grandi chef che ho incontrato, tra cui Gualtiero Marchesi, hanno sempre sostenuto che la maniera migliore di degustare i loro piatti fosse quella di non accompagnarli con alcuna bevanda, per non alterarne il sapore o, al limite, con un bicchiere di acqua a temperatura ambiente, o ancora, se proprio non se ne potesse fare a meno, con un vino molto semplice, leggero e neutro, per dedicarsi invece ai piaceri della cantina una volta esauriti quelli della tavola.
Credo che, soprattutto quando si tratti di cucina ad alto grado di complessità, questo abbia un gran senso. Anche quando la cucina è quella popolare, comunque, non sopporto l’idea di utilizzare il vino per intercalare ogni boccone, come non ho mai capito chi beva un sorso d’acqua ad ogni forchettata, spesso quando la bocca è ancora piena. Si può gustare un piatto e dopo godersi il bicchiere di vino, senza doversi impegnare nell’esercizio di intervallare piccoli morsi e piccoli sorsi. Questa pratica, spesso suggerita dai sommelier al tavolo, mortifica infatti sia vino che cibo, invece di esaltarli a vicenda. Il piacere del sapore, se è tale, sta nella persistenza, nel gusto di prolungarlo il più possibile. Schiacciare un’ostrica con la lingua sul palato e goderne le sfumature aromatiche per alcuni minuti rappresenta un’esperienza molto diversa dall’ingoiarla in fretta e lavarne via l’aroma con una golata di vino frizzante e ghiacciato. Ma a molti, probabilmente, dei molluschi crudi interessa il rituale e non il sapore. Per questo avrebbe molto più senso che i, per me odiosi, menu degustazione prevedessero una successione di calici con cui intercalare i piatti, serviti dopo ogni portata e non in abbinamento.
Un altro assioma dell’abbinamento è che a ogni specifico piatto debba essere associato uno specifico vino. Nei ristoranti di lusso siamo arrivati a servire dodici assaggi di cibo in compagnia di dodici calici di vino. A parte il fatto che oggi la cucina di punta si basa su forti acidità e grassezze, accompagnate da decine di ingredienti per piatto, che rappresentano un tale sforzo di analisi sensoriale, che rende molto arduo sia trovare un vino che sostenga il piatto in maniera sicura sia riuscire a percepire tutte le note aromatiche del vino in abbinamento, oltre a quelle del cibo, non scordiamo che il vino nutre, è un alimento. E come tutti gli alimenti sazia. E a metà del menu degustazione la fame, anche a causa dell’elevato numero di calici, è quasi scemata e diminuisce, fisiologicamente, la capacità di percepire sapori e profumi sia del cibo che del vino. Inoltre, l’essere umano non è in grado di prolungare per un tempo infinito la concentrazione che è necessaria per percepire un gran numero di sapori (anche i cani da caccia e da tartufi devono concedere delle pause alle loro narici durante il lavoro) e, dopo due ore in cui si sono provati trenta ingredienti e cinque calici differenti, il naso alza bandiera bianca. Per questo motivo preferisco quindi sempre provare due piatti invece che dieci e, se proprio non fosse possibile, ritengo sia meglio abbinarli tutti allo stesso vino, così da avere un elemento neutro, rassicurante, con cui “resettare” le papille all’interno di un percorso che ha già un eccesso di stimoli. Inoltre, scegliere un solo vino alla volta e non una serie di bicchieri diversi, si riporterà l’attenzione maggiormente sul vino stesso, potendo notare come si modifichi la percezione in accordo con i vari cibi.
Una cosa è certa, un grande vino migliora un pasto mediocre, il contrario mai. Per questo motivo, se non sono sicuro, in un locale o in una casa privata, di trovare dei vini contadini, porto sempre il mio vino. Se il pasto non è particolarmente interessante, un buon bicchiere migliora completamente l’esperienza. Se il pasto è eccellente, un vino vero, buono per lo stomaco e per il palato, lo rende ancora più gratificante. Sarà per questo che oggi la maggior parte di locali di lusso dà un’enorme importanza all’esperienza del vino e, guarda caso, si sta concentrando su vini contadini pregiati. Nella ristorazione di lusso, e non solo, l’esperienza del cibo riguarda sempre di più l’esperienza estetica e sempre meno quella del gusto, che viene affidata al vino.
Tra i pochi precetti che seguo dogmaticamente c’è quello, veronelliano, di non bere vini che non siano contadini.
Quando assaggio invece dei piatti tradizionali della tradizione contadina non pretendo che anche i vini serviti siano regionali, perché dal punto di vista dell’abbinamento la prossimità non ha significato, anche se ne riconosco il valore etnografico e di sostenibilità e, infatti, li scelgo quando sono disponibili. Mi delude, al contrario, trovare in un locale che serva vini di territorio, o vini contadini, un’offerta di cibo industriale o senza alcun richiamo al territorio.
Pur con alcune linee guida generali, che chiunque abbia praticato la degustazione ha imparato a proprie spese, l’eccessiva rigidità dell’abbinamento non regala mai la possibilità di aprirsi al sorprendente incontro con il sapore. La mia regola aurea è degustare vini veri, con cibi veri in compagnia di persone vere.