Il moscato è il quarto vitigno più coltivato in Italia. Conosciuto per le molte sottovarietà a bacca rossa e bianca, tra cui i famosi moscato d’Alessandria, moscato fior d’arancio e moscato d’Amburgo, è particolarmente pregiato e apprezzato il moscato bianco, che ha trovato nell’Astigiano uno dei suoi terroir d’elezione, dove prende il nome di moscato bianco di Canelli, ma che gioca ruoli altrettanto importanti in vari stati e regioni d'Europa.
Originario di alcune isole greche, veniva esportato in Italia già dalla tarda antichità, e dall’alto medioevo la sua coltivazione si diffuse via via in Sicilia, in Sardegna e in Corsica, rimanendo riservato alle tavole dei ricchi e dei nobili per via degli alti costi del trasporto via mare. A partire dal XII secolo nelle città del centro e del nord Italia si afferma una nuova classe sociale che si arricchisce rapidamente con i commerci ed il prestito di denaro, e che assume i lussuosi stili di vita in precedenza appannaggio esclusivo delle classi nobiliari come il consumo di vini raffinati e costosi tra cui primeggia il moscato. La domanda crescente porta alla rapida diffusione della sua coltivazione in prossimità dei centri urbani, soprattutto di quelli economicamente più ricchi.
Il nome “moscato” rimanda già di suo alla connotazione aristocratica di questo vitigno: il profumo e gli aromi sprigionati da quest’uva venivano infatti associati al “muscum”, la pregiata e costosissima essenza usata come profumo da re e imperatori, un tempo ricavata dalle secrezioni del Moschus Moschiferus, un piccolo cervide che abita alle pendici dell’Himalaya: un prodotto difficilissimo da reperire e incredibilmente lussuoso, come il Moscato.
L’apertura del consumo a una fascia più ampia della popolazione causa una espansione delle vigne in tutta Italia e Europa, piantato prima in Liguria si espande velocemente anche in Piemonte. Nell’Astigiano trova le condizioni ideali, dove rimane anche quando i mutamenti climatici restringono altrove l’areale più qualificato alla sua produzione. “Il moscato bianco è un bellissimo vitigno. Sia come foglie, grappoli e soprattutto portamento, si vede il suo sangue blu. Caratterizzato da grappoli cilindrici e leggermente allungati, acini sferoidali con bucce sottili e dal colore giallo-verdastro, la sua caratteristica più lampante è il profumo che sprigiona questo vitigno quando l’uva è giunta a maturazione” ci racconta Gianluigi Bera, la cui famiglia coltiva questo vitigno a Canelli da generazioni.
L’aromaticità, la caratteristica che più contraddistingue la famiglia dei moscati, è dovuta alla presenza di terpeni, molecole naturalmente presenti nella buccia e negli strati più esterni della polpa che formano i cosiddetti aromi primari del vino, al contrario degli aromi secondari e terziari, provenienti dalla fermentazione e dall’affinamento.
“La più antica tipologia del moscato era quella di vino passito, che permetteva di conservare un alto tenore zuccherino e gli aromi ad esso legati. Sfruttando la tecnica dell’appassimento o della surmaturazione si ottenevano inoltre vini semisecchi che fermentavano lentamente per mesi, mantenendo un’adeguata quantità di anidride carbonica che ne permetteva una buona conservazione” spiega Gianluigi, che oltre ad essere un vignaiolo è anche un grande appassionato e conoscitore di storia “A partire dalla seconda metà del XVI secolo l’Europa venne investita dalla cosiddetta Piccola Glaciazione, un evento che peggiorò le condizioni climatiche e rese impossibile arrivare a maturazioni spinte come in precedenza e sempre più difficile ottenere vini naturalmente dolci. I tecnici dell’epoca tentarono di risolvere il problema o con l’aggiunta di acquavite di vino, che bloccava la fermentazione, o con quella di mosto cotto, che ne aumentava la dotazione di zuccheri. Il primo metodo era però troppo costoso, il secondo aveva lo svantaggio di compromettere la finezza del vino e dei suoi aromi. Tra XVI e XVII secolo si diffuse in Piemonte la tecnica della filtrazione: il mosto, preventivamente ripulito dalla feccia più grossolana che veniva lasciata affiorare agli inizi della fermentazione, era poi fatto colare in sacchi di tela o di lana, rallentando così la ripresa dell’attività dei lieviti. Ripetendo l’operazione altre due o tre volte nel corso dell’inverno, il vino riusciva ad arrivare ai primi caldi con una buona metà degli zuccheri presenti nell’uva di partenza. Con l’affinamento della tecnica, e soprattutto con la diffusione delle bottiglie in vetro pesante e dei turaccioli di sughero nel corso del XVIII secolo, si affermò definitivamente la tipologia del Moscato d’Asti come vino dolce e frizzante specifico per il dessert. Non a caso nel 1832 il poeta astigiano Francesco Morelli lo celebrava come -vin delle torte, vin che resuscita/le genti morte- in un ditirambo dedicato ai vini della sua terra”.
Nei tempi recenti però il moscato non è più relegato esclusivamente alla produzione di vini dolci, anzi sempre più spesso se ne trovano tipologie secche che mettono in luce le doti più nascoste di questo vitigno. “Io ritengo che il moscato sia un vitigno molto versatile, mi sembra molto riduttivo usarlo solo come vino da dessert. E il vino che produce soffre di una stagionalità che lo vede ancora ancorato al panettone a Natale e ad essere consumato giovanissimo” conclude infatti Gianluigi “È vero che non tutti i moscati possano essere adatti al pasto, ma questo è limitato solo a quei moscati che sono meno strutturati e mancano di polpa e morso. Noi abbiamo cercato di provare nuove espressioni per questo vitigno e ne siamo rimasti soddisfatti, avevo sentito di qualcuno che aveva fatto il moscato sotto vela e così ho voluto sperimentare anche io. E poi devo confessare che ho un po' di nostalgia dei moscati rifermentati in bottiglia e non escludo infatti di tornare a produrli. Sarà meno raffinato degli attuali moscati ma personalmente credo che rispecchi maggiormente le qualità di questo terroir.”
All’interno del catalogo Triple “A”, il moscato bianco compare in numerose forme e varianti. A Canelli i Bera danno vita a tre moscato in purezza: si comincia dal tradizionale, dolce, ma mai stucchevole Moscato d’Asti, si prosegue sul Baravantan, vinificato fermo e secco per una stupefacente non corrispondenza naso-bocca, per poi concludere con il Bianchdusét, a cui faceva riferimento Gianluigi, un moscato vinificato alla jurassien con affinamento di dieci anni sotto vela.
Restando in Piemonte, possiamo spostarii nel Roero, dove incontriamo il moscato tra i filari di Giuseppe Amato e Kyriaki Kalimeri di Valdisole: una versione in purezza con otto mesi di macerazione a cappello sommerso, l’Aura, e una in uvaggio con l’arneis da permanenza sulle bucce di “solo” un mese, l’Armonia. Andando invece in direzione Gavi, tra i vini di Cascina degli Ulivi, il moscato fa da protagonista nella realizzazione del Bellotti Boll, l’ancestrale dedicato a Stefano, e concorre in piccola parte alla produzione del Semplicemente Rosa in collaborazione con syrah e merlot.
Muovendosi verso l’Oltrepò, ritroviamo il moscato bianco nei vini di Tenuta Fornace, sia in versione macerata e solista nel Tuttosole, sia all’interno del metodo ancestrale Bullicine dove spalleggia il pinot nero. E poi in Liguria, dove dà vita insieme all’uva regina, al passito del “doposcuola di Possa”, l’U Stragnu, e in Toscana dove concorre alla produzione dei bianchi di Calafata, il Gronda e l’Almare. E ancora bisogna inseguirlo all’estero, in Istria Bianca, dove viene lavorato da Giorgio Clai in appassimento per dare vita al Tasel, e ovviamente in Francia, dove prende il nome di muscat à petit grains e si trova dalla Provenza, come nel Le Grand Blanc di Henri Milan, fino all’Alsazia di Christian Binner, dove se la gioca sia da solo nel Mus’K, sia in assemblaggio con gli altri “vitigni sacri alsaziani”, il gewurztraminer e il riesling, nelle nuove cuvée Scarabee, la macerata Skintouch e la sottovela Temps Passé e nell’Eleveur de Pierres.
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